venerdì 30 settembre 2011

A.A.A Buona reputazione cercasi…

…ma cos’è successo a Viguzzolo, in provincia di Alessandria?)

Red Rom

E’ difficile parlare di merito, di premialità, di carriera nella scuola italiana. Già ci aveva provato oltre 15 anni fa il Ministro Berlinguer e il tentativo era naufragato per la palese ostilità degli insegnanti, non disponibili a mettersi in gioco per consentire di riconoscere al loro interno una fascia di eccellenza (pari ad una quota del 20% del personale in servizio). Di quella vicenda possiamo ricordare i meccanismi tecnici poco graditi, come il test per l’accertamento delle conoscenze, la presentazione/valutazione del curriculum personale, la “visita didattica alla propria classe”, ma il problema di fondo resta l’impatto simbolico negativo del principio del riconoscimento del merito. La possibilità di un trattamento giuridico (ed economico) differenziato sulla base di criteri qualitativi e non solo per la mera progressione dell’anzianità di servizio suscita ancora una forte resistenza, soprattutto l’idea di competizione. Il lavoro docente si basa su presupposti vocazionali oltre che professionali: tutti devono poter essere percepiti come insegnanti “sufficientemente buoni”.

Una sperimentazione “forzosa”

In queste premesse, e non solo nella strumentazione tecnica, stanno le ragioni dello scarso “appeal” della sperimentazione promossa dal MIUR in materia di valutazione dei docenti.
Ci riferiamo al progetto “Valorizza”, i cui esiti sono stati illustrati il 30 giugno 2011 nella Sala di rappresentanza della Camera dei Deputati, ma che non sembra aver convinto neppure i membri del Comitato Scientifico incaricato di supervisionare l’iniziativa. Si tratta di 33 scuole sperimentatrici di Piemonte, Lombardia, Campania (faticosamente racimolate qualche mese fa) che non costituiscono certamente un campione rappresentativo. Sappiamo delle difficoltà incontrate nei grandi centri urbani individuati per la sperimentazione (Torino, Milano, Napoli) e dei successivi e progressivi ripieghi verso le periferie regionali. Nel campione appaiono poche grandi scuole ed invece una miriade di micro-istituti comprensivi in vallate, piccoli centri, periferie territoriali1: un’Italia apparentemente “minore”, forse un punto di forza del nostro paese, però fuori dai grandi flussi del dibattito, della costruzione dell’opinione pubblica, del rapporto con centri di ricerca, università, territori creativi. Spesso pilotate verso la sperimentazione da dirigenti “convinti” e “vicini”, ma con collegi dei docenti non del tutto acquiescenti. Si è constatato che il progetto ha messo in moto soprattutto la caccia al premio (una quattordicesima mensilità per il 30% dei docenti disponibili a sottoporsi alla valutazione), ma non ha creato quel dinamismo che ci si aspettava in termini di ricerca, formazione, miglioramento complessivo della scuola. Se in un collegio di 150 docenti solo 14 hanno aderito al programma di valutazione, la forzatura è evidente, per non parlare dei risentimenti e delle “ferite” in quel 70% del gruppo escluso dal premio (“…come preside, ho dovuto fare il pompiere per riaggiustare i cocci…”).

Il metodo reputazionale

Anche metodi e strumenti non hanno convinto granché: un nucleo di valutazione interno (due docenti ed il dirigente scolastica) ha scelto i docenti da premiare, sulla base di una doppia valutazione: l’apprezzamento del curriculum professionale e la verifica del gradimento da parte degli utenti (genitori e studenti). Il processo è stato preparato da una fase di autovalutazione, che probabilmente ha sovrastimato le competenze dei docenti (…acquaiolo, com’è l’acqua [in vendita]? Fresca come la neve!..), con uno scontato richiamo a caratteristiche “politicamente corrette”: chi è quel docente che non desidera promuovere un apprendimento costruttivo, suscitare motivazione e partecipazione negli studenti, prendersi cura dei ragazzi in difficoltà ecc.?. Alla prova dei fatti il curriculum vitae europeo, riferito agli ultimi tre anni, è sembrato non in grado di contenere la ricchezza del profilo professionale del docente, di evidenziare l’attività di formazione in servizio e soprattutto la qualità della didattica effettivamente praticata. D’altra parte, il modello prescelto escludeva qualsiasi osservazione diretta in classe e non metteva in conto i risultati ottenuti dagli allievi. Due operazioni, per altro, di non facile realizzazione, scartati dall’approccio reputazionale, che si limita alla ricerca degli insegnanti più stimati e considerati: metodo forse rispettabile per il marketing o per le “primarie”, ma assai poco credibile per i docenti. Già ce la immaginiamo la “campagna elettorale” dei docenti, con tanto di distribuzione di “santini” o la fatidica domanda rivolta dal capo di istituto ad attoniti genitori: “Quali sono gli insegnanti migliori di questo istituto?” (“Quelli dei nostri figli!”, sembra essere stata la risposta più scontata). Con il rischio di “pressioni” di genitori non sempre “disinteressati”. Analogamente, gli studenti, avranno cercato di opzionare i docenti magari più capaci di empatia (sempre meglio della semplice simpatia, ma sarà successo questo?).

Valutare o stimolare il miglioramento?

Ma poi, recuperato il premio, ricevuta la targa di “buon” insegnante, cosa è effettivamente successo nelle scuole sperimentali? Quali sono stati vantaggi e svantaggi della vicenda? E’ di conforto sapere che alcuni degli stessi premiati hanno chiesto di ricevere non solo il “premio” ma soprattutto indicazioni e consigli per lo sviluppo professionale, per il miglioramento.
A questo punto, allora, bisogna chiedersi quale sia il senso dell’intera operazione: si vuole stimolare un nuovo dinamismo tra i docenti, premiare chi si mette in discussione e si impegna a favore della propria scuola (per migliorare la performance organizzativa, si direbbe in gergo organizzativo), oppure si intende applicare in maniera forzata il principio introdotto dalla riforma Brunetta sulla premialità nella pubblica amministrazione (con la clausola che il 50% degli incentivi vada redistribuito al 25% dei migliori)?
Ci sono delle alternative a questo metodo? Se l’obiettivo è quello di creare un dinamismo nella professione, di favorire il lavoro di squadra dei docenti, di verificare i risultati rispetto ad obiettivi significativi (negli apprendimenti dei ragazzi), i premi andrebbero in primo luogo dirottati verso scuole disponibili a mettersi in gioco in questa impresa. Poi si potrebbero anche riconoscere impegni differenziati dei singoli, in termini di tempo, di disponibilità, di responsabilità nella scuola. I riconoscimenti dovrebbero essere temporanei, rispetto ad attività che abbiano una ricaduta nell’organizzazione scolastica, premiando i docenti più “generosi”. Con scelte interne ad ogni scuola.
La carriera è una altra cosa. Essa dovrebbe tendere a “marcare” comportamenti virtuosi, azioni di ricerca, formazione, disponibilità a documentare il proprio modo di lavorare (es. attraverso il portfolio professionale), e a confrontarlo con una equipe di esperti del proprio settore.
Questa valutazione potrebbe dar luogo ad una carriera, ad un profilo di docente “master” o “senior”, a cui chiedere qualcosa in più, per mettere la loro “autorevolezza” a disposizione della comunità professionale, per confermare che anche nei riconoscimenti individuali non si dimentica la radice collaborativa e relazionale del lavoro educativo.